Tra i molti esercizi proposti da “i Parolanti” è particolarmente interessante la riscrittura. Come ha detto uno di noi, facendo una cover di un racconto di un altro te ne puoi fregare della trama, ce l’hai già, quindi puoi concentrarti solo sullo stile, con risultati sorprendenti. Un doveroso Grazie a Michael Rigamonti che si è messo in gioco non poco per partecipare a questo esercizio collettivo. Le altre riscritture le trovate sul blog dei Parolanti
‘Ordine’ di Michael Rigamonti
Sapeva di non essere un grande autore, ma quello era troppo. Era davvero troppo.
Tolse lo sguardo dall’ultima riga letta mentre sentiva già la bile risalirgli lo stomaco.
Patetico, veramente patetico.
Strinse il pugno fino a sbiancarsi le nocche, i nervi guizzarono nell’avambraccio e sussultarono. Come potevano certe persone definirsi scrittori? Sarebbe stato come definire Cauchy uno a cui piaceva giocherellare coi numeri, alla faccia dei suoi teoremi. Mettiamo tutto sullo stesso livello dunque, bene. Perfetto! Si massaggiò le tempie.
Mentre rovistava in quella discarica mentale di pensieri confusi che aveva in testa un ricordo affiorò alla superficie. ‘Non è possibile’ si disse, cercando di controllare la rabbia che ormai eruttava i suoi lapilli di magma. ‘Questa è quella che due settimane fa mi ha chiesto quale fosse la differenza fra narratore ed autore perché, a detta sua, non l’aveva mai capita bene’.
Sentiva le pulsazioni mitragliargli tutti i muscoli del corpo scuotendolo in piccoli tremori. Chiuse gli occhi; si costrinse a prendere fiato e a calmarsi. Li riaprì e osservò la scrivania.
Ordine. Ordine.
Agguantò il cellulare posato di fronte a sé e lo ruotò in senso orario fra le dita. Uno. Lo rigirò in senso antiorario. Due. Di nuovo in senso orario. Tre.
Forse non era abbastanza, altri tre giri. Uno, due, tre.
Due volte tre? Impossibile, non sarebbe mai potuto rientrare nei piani quell’obrobrio. Un altro giro. Uno, due, tre.
Provò l’impulso di ruotarlo ancora e ancora, finché gli sarebbe parso più giusto, ancora più giusto di quanto quel giusto gli paresse giusto adesso. Rise dentro di sé fino a scoppiare. Non sapeva fino a che punto quella folle idea lo avrebbe potuto spingere. Forse avrebbe dovuto dichiararsi pazzo, ma ripensandoci c’era gente ben più folle in fin dei conti là fuori, no?
Sospirò, posò il cellulare di fronte alla tastiera raddrizzandolo fino ad avere linee parallele. Bordo della scrivania. Contorni del cellulare. Bordi della testiera. Perfezione.
Sfiorò la cornice del monitor del computer assaporando la sensazione di ruvido della plastica sotto le sue dita. Toccò il bordo destro, lo schermo dondolò, si fermò. Non abbastanza. Un altro piccolo buffo alla base, ancora il dondolio, di nuovo fermo. Probabile fosse già perfetto così, ma perché rovinare tutto? Un altro piccolo tocco. Ora era in linea con gli altri elementi. Equilibrio.
Controllò che Il portapenne fosse parallelo alle linee che definivano i contorni immaginari della sua creazione. La penna e il quaderno per gli appunti: anche loro dovevano rientrare in quello schema. Armonia, pura e semplice armonia. Paralleli, perpendicolari, equidistanti. L’unica cosa che contava in quel caos era la ricerca della pura precisione.
Cosa doveva fare ora con quel… coso, come si maneggiava?
Si allungò sulla scrivania con le mani sopra la testiera, immobilizzate a mezz’aria in attesa di istruzioni che non arrivavano. Si ritrovò a guardare la pagina del social network con quei suoi colori pastello così rilassanti, così conformisti. Il cursore lampeggiava impaziente nel riquadro vuoto dei commenti.
Si decise a scrivere qualcosa: «Ottimo lavoro» batté ingoiando saliva a vuoto. Certe volte era meglio non esternare le proprie paranoie.
‘Ordine’ versione di Friedrich L. Friede
Tolse la matita dal temperino a manovella e fissò in controluce la punta. Affilata.
Pose la matita di fianco alle altre quattro. Parallela. A otto millimetri dalla sua vicina.
“Troppo corta” mormorò a denti stretti.
Prese una dopo l’altra le tre matite e le infilò nel buco dell’attrezzo. Quattro giri di manovella ciascuna. Una di fianco all’altra, otto millimetri. Due centimetri dal lato destro del blocco di carta. Parallelo alla tastiera.
“Ora è tutto in ordine” pensò, e solo allora ebbe la forza di alzare lo sguardo sul monitor.
Quel racconto gli dava ansia. Era di quella stessa ragazza che non più di cinque giorni prima gli aveva chiesto la differenza fra narratore e autore.
“Scrittrice, puah!”
Non che si ritenesse un novello Carver, ma definire quell’insulsa ragazza scrittrice, ai suoi occhi era come scambiare un bambino ritardato per un astrofisico di fama internazionale.
Il racconto era disordinato, asimmetrico, la struttura era completamente priva di armonia, non c’era alcuna traccia di musicalità in quelle parole messe in fila a caso.
“Strette trecce, strette trecce, strette trecce.”
Ripetè ancora sette volte quelle due parole che mai, a pare suo, avrebbero dovuto stare vicine in un testo. L’acidità gli aggrediva la gola e gli mozzava il respiro. La vista si annebbiò, dovette distogliere gli occhi dallo schermo e stropicciarli con due dita della mano destra. Sette volte.
Riaprì gli occhi. Lo schermo del cellulare, due centimetri a lato del tappetino del mouse era illuminato. Mise a fuoco la notifica.
“Allora, ti è piaciuto?”
Sentì il cuore balzare in petto. Un messaggio, se avesse sbloccato lo schermo la sedicente scrittrice avrebbe visto che l’aveva letto. Comunque si sarebbe accorta che era stato consegnato e si sarebbe sicuramente chiesta del perché lui non l’avesse ancora aperto.
Prese il cellulare e quasi gli cadde. Lo recuperò al volo e lo portò davanti agli occhi. Cosa poteva dire? Girò lo schermo di novanta gradi a destra. La verità era che quel racconto era immondizia, il frignare scoordinato di una adolescente troppo cresciuta con un cervello rimasto grande come un fagiolo. Girò lo schermo di novanta gradi a sinistra. Poteva inventare una bugia pietosa. Destra. Poteva dire che aveva apprezzato lo sciocco profluvio di sentimenti che l’insulsa protagonista si peritava di condividere. Sinistra. Meglio di no. Meglio dire che la prosa era fresca. Destra. Fresca non vuole dire nulla. Sinistra.
“Maledetta imbecille!” disse.
Il cellulare fece un breve volo verso la scrivania, ma lui subito lo riprese, controllò che non ci fossero scalfitture, quindi lo riposizionò a due centimetri a destra del tappetino del mouse.
Sentiva distintamente la pressione crescere dentro di lui.
“Strette trecce, strette trecce, strette trecce”
Le mani partirono quasi fuori dal suo controllo cosciente. Prese le matite, le posizionò sulla scrivania in piedi e le traguardò per controllare che l’altezza fosse proprio identica, poi le ripose, una a otto millimetri dall’altra, parallele.
Le matite erano in ordine, tastiera e mouse pure. Il cellulare era perfettamente parallelo al tappetino incollato al piano. Era tutto in ordine, ma quel racconto era un frenetico casino.
“Strette trecce, strette trecce, strette trecce”
Allungò le mani verso la tastiera. Un commento pubblico. Lo avrebbero letto anche altri.
Ritirò le mani e fissò il cellulare. Un messaggio privato.
“Strette trecce, strette trecce, strette trecce”
Afferò il cellulare, passò il dito sullo schermo per sbloccarlo. Pulì immediatamente il visore con un piccolo panno, poi lo piegò in quattro e lo ripose.
Ora lei avrebbe visto la spunta, avrebbe pensato ‘L’ha letto, ora mi risponderà’.
Lui sentiva la pressione crescere con il passare dei secondi, dei tremori incontrollabili si stavano impadronendo di lui.
“Mi dispiace dirti che il tuo racconto non…” digitò, ma cancellò subito.
“È veramente un indecente guazzabu…” ancora cancellò vergognandosi un po’.
Alzò gli occhi al cielo, si sgranchì il collo, ma l’ansia continuava a salire, la sentiva divorare ogni centimetro del suo corpo come un piccolo branco di piranha.
“Le bugie aumentano l’entropia, aiutano il disordine nel mondo. Le bugie sono male. Devo dirle la verità. Devo dirle… qualcosa, devo dirle qualcosa qualcosa qualcosa o impazzisco qui e ora.”
Puntò lo sguardo sullo schermo. Nel riflesso del suo viso gli sembrava di intravvedere l’espressione ansiosa di quella ragazza che neppure conosceva.
Si decise a scrivere.
“Davvero un opera degna di te, devi esserne fiera” batté con i polpastrelli ingoiando saliva a vuoto, poi premette invio e riprese subito il panno per pulire lo schermo.
I piranha lentamente si diressero verso altri mari.