Esercizio del mese di dicembre de ‘I Parolanti‘ e pubblicato nel relativo blog.
(qui il collegamento)
Passeggiando sul lungofiume come usava quando doveva risolvere un problema di particolare difficoltà, il professor Metzcke attendeva che giungesse quel momento di epifania quando tutti i dati, tutte le equazioni apparentemente discordanti che aveva tracciato sulla lavagna e che portava scolpite nella testa, si incasellavano nel giusto ordine dando luogo alla soluzione, semplice, esatta ed elegante. Quel momento sembrava non arrivare, erano giorni che gli sfuggiva, e lui passeggiava quieto all’apparenza, mentre i simboli matematici vorticavano frenetici dentro di lui senza trovare pace.
Lo sguardo gli cadde su un uomo vestito di un pastrano sdrucito e macchiato, seduto su un precario sgabello, con una tela in parte dipinta davanti, che fissava il panorama della riva opposta.
Il professore si fermò a fissarlo da dietro le spalle e così rimase a lungo, in silenzio.
Il pittore per parte sua faceva poco. Ogni tanto sollevava il pennello, misurava un palazzo traguardandolo con un solo occhio aperto, poi riportava le mani in grembo. Solo raramente intingeva il pennello in un punto preciso del guazzabuglio di colori che sporcava la sua tavolozza e tracciava un segno sulla tela.
Il professore non riusciva nel modo più assoluto a capacitarsi del modo di procedere dell’altro uomo. La realtà era lì, davanti ai suoi occhi, così palese e differente dalle astrazioni con cui era alle prese lui. Era sufficiente riprodurla per quel che era.
“Mi perdoni” chiese al pittore nel mezzo di una pausa di inattività particolarmente lunga “ma cosa sta aspettando?”
L’uomo si girò con esasperante lentezza.
“L’ispirazione, amico mio, l’ispirazione, e lei?”
“Forse anch’io, anche se nel mio caso la parola non è molto appropriata”
Il pittore si girò per guardare meglio il suo interlocutore. Dritto nel suo cappotto, sotto l’elegante cappello da passeggio mostrava uno viso tormentato da rughe di preoccupazione.
“Che sorta d’ispirazione cerca?”
“Devo risolvere un problema sulla gravitazione degli astri, cose complesse da spiegare così su due piedi. Non riesco a trovare il nesso che metta in riga una serie di complesse equazioni e le faccia incastrare fra loro in modo coerente.”
“Lei è dunque un fisico” considerò il pittore.
“Già” rispose l’altro quasi fosse spiacente della cosa “Un fisico che si strugge perché non riesce a raggiungere il suo obiettivo. Lei invece che cosa attende? La città, il fiume sono lì, perché non li dipinge?”
“Un tratto di pennello non è uguale a un altro, come immagino anche i suoi numeri non siano tutti uguali. Io non ho alcuna fretta e attendo il momento giusto.”
Il pittore provò un istintivo moto di compassione per l’altro uomo. Lui non ne condivideva il tormento, la sua attesa era placida e ne godeva. Il momento in cui l’istinto guidava la mano sulla tela era tanto bello quanto le lunghe pause in cui si formava nella sua mente. Non aveva un obiettivo prefissato, il suo imperativo non era finire, ma evitare di sprecare tela e colori in un quadro freddo e banale. I tratti vividi, fluenti e pregnanti venivano da sé quando ne avevano voglia, e nell’attesa lui si godeva il panorama, la tiepida brezza e il canto degli uccelli. Non riusciva proprio a comprendere come il professore non riuscisse a godersi il viaggio che lo avrebbe condotto al suo obiettivo.
Quella faccia angosciata e sofferente gli aveva rovinato quella pace interiore che sapeva essere foriera di ispirazione. Sotto lo sguardo stupito del professore, ripose pennello, tela e colori, infilò cavalletto e sgabello sotto un braccio e si portò davanti a lui.
“Le auguro di risolvere il suo problema, caro signore. Io per oggi lascio che i miei pensino di aver vinto. Li affronterò domani, o forse un altro giorno. Buonasera” disse, e se ne andò passeggiando per il lungofiume.